Opere Alchemiche
Apre al pubblico il 24 settembre alla Galleria del Cembalo, e proseguirà fino al 14 novembre, una grande mostra sul lavoro di Paolo Gioli.
Le immagini di un esploratore della visione tra fotografia, cinema e pittura.
“Quello che mi interessa enormemente è la formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi”.
È qui, nell’incontro formidabile tra luce e materia, che ha luogo l’azione fotografica e artistica di Paolo Gioli, cui la Galleria del Cembalo dedica Opere alchemiche, la grande mostra che apre al pubblico il 24 settembre e fino al 14 novembre porterà in quattro delle sue sale oltre ottanta immagini.
Esploratore della visione, Gioli è approdato alla fotografia, e al cinema, dopo essere passato, sin da giovanissimo, per l’esperienza della pittura, individuando in ciascuno dei territori attraversati un percorso estraneo a ogni schematica catalogazione.
L’esposizione proposta dalla Galleria del Cembalo dà pieno conto di un’arte che tocca fotografia, cinema e pittura, e si propone come prima mostra a Roma – almeno dai tempi di quella organizzata al Palazzo delle Esposizioni nel 1996 – che significativamente rappresenta la coniugazione di tre universi visivi.
I disegni degli anni Sessanta, i quadri dei Settanta, così come i film, confrontandosi in mostra con esemplari di serie fotografiche – Sconosciuti, Toraci, Vessazioni, Luminescenti, Volti attraverso – trattano la fisicità della figura umana proponendo di volta in volta visioni pop, dadaiste, espressioniste, surrealiste, neoclassiche, barocche e rinascimentali, sempre mantenendo una straordinaria coerenza di approccio ed elaborazione.
La categoria della ricerca incontra spesso, nell’opera di Gioli, quella dell’invenzione: ne è frutto una fotografia non intesa come copia del reale, in cui un’attitudine tecnica divenuta sapienza conduce – come ha scritto Giuliano Sergio – a “un’essenzialità che è diventata disciplina mentale ed estetica per cercare l’origine della fotografia e ottenere risultati altrimenti inimmaginabili”.
Il foro stenopeico utilizzato per raccogliere immagini senza macchina fotografica, così come la straordinaria concezione del fotofinish, l’utilizzo inedito dell’amata Polaroid – “umido incunabolo della storia moderna” – o la rielaborazione di immagini ‘trovate’, racconta l’assoluta originalità dei processi, alchimie che non sono mai fine a se stesse, ponendo una rigorosa disciplina d’artista al servizio di una libertà pressoché assoluta dell’azione creativa.
“La Polaroid – secondo Paolo Gioli – si trasferisce come lo strato di un affresco. L’immagine, staccata dai propri reagenti, dal suo negativo come una pelle dalla carne viva, perde lo smalto-fissatore-protettivo che viene assorbito dalla trama della tela o dallo spessore della carta. Mi piace questo trasferire su materie così nobili, antichissime, una materia che è il trionfo del consumo immediato, della pornografia e del ricordo familiare. Tra il momento in cui si stacca e quello in cui va a depositarsi, io posso benissimo intromettermi come un parassita creativo”.
La mostra è accompagnata dal libro Paolo Gioli. Abuses. Il corpo delle immagini edito da Peliti Associati.
“L’uso del foro stenopeico con la fotografia e il cinema – si legge in uno degli scritti che correda il volume –, l’abilità di trasferire la materia sofisticatissima dell’immagine polaroid su supporti come la carta, la seta e il legno attraverso una pratica calcografica, non hanno valore unicamente nella storia della tecnica fotografica ma aprono possibilità nuove di contaminazioni espressive”.
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